domenica 7 maggio 2017

La dèa delle prostitute, la multiforme Venere

(Foto: Wikipedia)
Tra le tante feste del calendario romano, non mancavano quelle riservate alle donne, in generale o distinte per categoria. C'era la festa dedicata alle madri di famiglia, le Matralia, che si celebravano l'11 giugno; c'erano quelle delle serve, il Festum Ancillarum, celebrate il 7 luglio.
Una festa minore era riservata alle prostitute, le Meretrices (da merere, guadagnare), le donne che "facevano pubblicamente commercio del proprio corpo", come erano giuridicamente definite. Il mestiere più antico del mondo era a Roma legalmente riconosciuto e, per certi versi, anche regolamentato. Le prostitute, infatti, dovevano essere iscritte in un "albo" professionale tenuto dagli Edili. Le prostitute, poi, dovevano indossare un abito speciale (vestis meretricia), dovevano pagare una tassa giornaliera (vectigal meretricium) pari all'importo di una singola prestazione al giorno, non potevano assistere ai pubblici spettacoli e testimoniare in tribunale, né potevano ricevere legati ed eredità, nemmeno da un congiunto.
Le prostitute, però, sfuggirono ai rigori della legge sugli adultéri promulgata da Augusto nel 18 a.C.. Questo fece si che anche donne di buona famiglia, maldisposte a causa delle limitazioni alle libertà di comportamento ed anche per protestare per l'intrusione dello Stato nella loro vita privata, andarono a iscriversi nei registri delle prostitute.
Dante Rossetti, Venere Verticordia (Foto: Angèlique DeVil)
Tra le prostitute vi erano donne di condizione servile che lavoravano alle dipendenze del proprio datore di lavoro nei bordelli (lupanaria), nelle locande (cauponae) o nelle osterie. Non di rado il mercimonio avveniva anche nelle case private. Le altre, quelle che esercitavano "liberamente" la prostituzione, lavoravano in proprio. Attiravano i clienti dalle soglie delle cellae meretricae, aperte sulla strada, o dai fornici dei teatri del circo (da cui il verbo fornicare), oppure tra le tombe che affollavano le vie consolari.
Le prostitute celebravano la loro "festa" (dies meretricum), il 23 aprile, giorno anniversario della dedica, nel 181 a.C., del tempio votato nel 184 a.C. dal console Lucio Porcio Licinio, in guerra contro i Liguri, a Venere Ericina. Una Venere onorata nel santuario di Erice, in Sicilia, con un culto che prevedeva, tra l'altro, l'antichissima pratica della prostituzione sacra. Poiché il tempio costruito a Roma era dedicato ad una divinità straniera, venne costruito fuori del pomerio e delle mura urbane, all'estremità del Quirinale, oltre la Porta Collina, in un luogo che alcuni studiosi pensano di riconoscere tra le vie Sicilia e Lucania o tra le vie Gaeta e Curtatone (dove nel 1873 furono trovati i resti di un edificio sacro). Il tempio venne inglobato, successivamente, negli Horti Sallustiani.
Antonio Canova, Venere e Adone (Foto: visionealchemica.com)
Al tempio di Venere Ericina, ogni 23 aprile, convergevano le prostitute in processione, recando corone di rose e di mirto, piante sacre alla dea, per onorare Venere. Le donne chiedevano alla dea di vegliare su di loro e di mantenerle sempre giovani ed attraenti. Ovviamente questo pellegrinaggio attirava una folta platea maschile e solitamente avevano anche luogo incontri e contrattazioni di natura sessuale.
In epoca tarda questa festa venne, probabilmente, unificata con quella che, alle calende del mese di aprile, era dedicata sempre a Venere, ma alla divinità dell'amore coniugale, la Venere Verticordia, ossia che volge e converte i cuori. All'origine di questo culto ci sarebbe stato un sacrilegio compiuto dalle vestali, in espiazione del quale i Libri Sibillini avrebbero prescritto l'erezione di una statua o di un tempio alla dea, la cui dedica (216 a.C.) sarebbe stata affidata ad una certa Sulpicia, moglie di Quinto Fulvio Flacco, ritenuta all'epoca la matrona più casta di Roma. Così, in uno stesso giorno, si festeggiava e si invocava la Venere "sacra" e quella "profana".
Venere Obsequens o Venere Ericina
(Foto: RomeandArt)
Nei Veneralia, secondo il poeta Ovidio, madri e nuore, adorne di corone di mirto, invocavano la divinità lavandone il simulacro e libando con una miscela di fiori di papavero, latte e miele. L'etimologia del nome Venus viene riportata al verbo vinciri, avvincere, unire; oppure ad un astrato neutro, *venus, il cui significato è espresso dal verbo venerari, cercare di piacere, rendere dei favori al dio.
I Romani ritenevano Venere una divinità androgina o addirittura di sesso maschile. Scrive Macrobio: "Ad esempio certuni leggono [negli scolia di Servio all'Eneide]: mi allontano e guidato dalla Dèa tra le fiamme e i nemici/riesco a passare; mentre egli con grande erudizione aveva detto 'guidato dal Dio' non 'dalla Dèa'. [...] A Cipro c'è anche una sua statua con la barba, con forme e in abbigliamento da donna, con lo scettro e in statura di uomo; e ritengono che sia maschio e femmina nello stesso tempo. Aristofane la chiama Aphròdìtos, al maschile". Androgina era la statua di Venus Calva, la più antica forma di Venus di quelle a noi storicamente nota.
Le tracce di una sorta di prostituzione sacra nella tradizione romana emergono dai racconti mitici di incontri sessuali tra donne e membri virili comparsi dal nulla, come nel caso del re Servio Tullio, frutto dell'unione della madre Ocrisia, schiava di Tarquinio Prisco, con un fallo comparso tra le ceneri del focolare. Un'altra prova è considerata il culto di Anna Perenna, che si svolgeva sulle rive del Tevere, caratterizzata da rituali orgiastici. Inoltre nei Floralia le prostitute si spogliavano ritualmente su richiesta dei partecipanti ed eseguivano danze sfrenate; durante la festa della Bona Dea si svolgevano, invece, vere e proprie orge rituali, che rappresentavano dei matrimoni sacri nei quali si prostituivano donne di nobili natali che erano tenute in grande considerazioni.

Fonti:
Liberamente adattato da "Archeo" aprile 2017 e da "Il Tempo di Roma" di P. Galiano e M. Vigna

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